Un reato imprevedibile e impunibile
Il reato del secondo millennio è imprevedibile e impunibile.
a cura di Zeno Salimbene, 5C
È passato qualche tempo dalla notte tra il 6 e il 7 luglio dell'anno scorso. In quella data, presso un cantiere abbandonato vicino al Foro Italico, a Palermo, una diciannovenne viene picchiata e violentata da sette ragazzi tra i diciassette e i ventidue anni. La notizia si diffonde, l'opinione si infiamma, eppure è ancora necessario oggi farsi un esame di coscienza che vada oltre la cronaca, che attacchi nel profondo il nostro tempo.
Si prenda in considerazione tutta quella variopinta gamma di delinquenze scaturite dalla leggerezza o dall'ignoranza con cui si compie una determinata azione, si avrà una moltitudine di omicidi, violenze, effrazioni, frodi, tormenti fisici e psicologici germogliati sulla credenza (semplice fino al ridicolo) che all'azione non corrisponde la conseguenza. Perciò il male è rimediabile, reversibile, mai colpevolizzante, sempre condonato, generalizzato, indolore, ma, soprattutto, sarebbe stato commesso ugualmente anche non fossimo stati noi a farlo, e questo, in definitiva, non si può cambiare.
Si capisce bene che, di fronte ad un reato che è una bazzecola, ad un omicidio che è un errore, ad uno stupro che è una bravata, ad un pestaggio che era inevitabile, poco possono fare le minacce di una autorità.
Il reato è impunibile poiché alla base della pena sta il contatto con la colpevolezza, la realizzazione (non sempre assimilabile col pentimento) della rilevanza del proprio agito. Nel momento in cui tale consapevolezza manca radicalmente, la pena assume l'aspetto di una ripicca o di una immotivata persecuzione, e non costituisce più una risposta ma un'ingiuria agli occhi del colpevole.
Se il reo non è in grado di recepire la consequenzialità della pena, egli non può correggere il suo agito.
Per questa ragione ho usato la definizione di "imprevedibile e impunibile", proprio per sottolineare come il degrado che genera questa qualità di reati non è di natura territoriale, ma esistenziale, concerne cioè uno stravolgimento dei nessi logici nel pensiero intimo di una generazione.
Il credere, ben diffuso, che la realtà sia una immutabile, omogenea e reversibile miscela di eventi indistinti e disposti senza un ordine crea criminali che non sanno di essere nel torto.
A questo punto qualsiasi discrimine etico, fisiologico, psicologico, qualsiasi connotazione del proprio agire, si diluisce fino a scomparire e, questo è chiaro, le parole utilizzate dai colpevoli nella giustificazione o nella descrizione del proprio comportamento sono tremendamente indicative, come la narrazione semi-analfabeta di una giornata al mare.
Siamo di fronte ad un nuovo tipo di "banalità" Arendtiana, che colpisce indistintamente ognuno e lo rende impenetrabile a qualsiasi accusa.
Ciò che possiamo fare è ripartire dai limiti.
Questo genere di criminalità non si può estinguere nelle carceri, poiché, come citato, le pene sono tendenzialmente prive di valore educativo nella mente di un "non colpevole".
Perciò la contro-offensiva deve radicarsi nell'esempio.
Se la generazione dei nostri genitori ci ha educati alla deresponsabilizzazione e noi, fin ora, la abbiamo applicata nell'arte, nelle relazioni, nelle parole e nelle opere, sta a noi risvegliarci dal torpore di un'esistenza della quale non siamo padroni ed assumerci la responsabilità di una scelta piuttosto che un'altra davanti alla nostra medesima autorità. In questo modo, rendendoci punibili, potremo renderci anche liberi.