Intervista al professore Mariano Aprea

Il Prof. Mariano Aprea, docente di storia e filosofia del Liceo Scientifico M. Azzarita di Roma, ci racconta la sua lunga esperienza nel mondo del cinema e del teatro. Il Professore, infatti, è un attore, regista e produttore cinematografico.

di Leonardo Terranova, 4A

Come e quando è nata questa sua passione?
La passione per il cinema nacque molto presto, a casa quando con mia madre si vedevano i film americani degli anni trenta e quaranta, di cui, con sorpresa, conosceva per nome gli attori e le attrici; e, bisogna dire, anche con mio padre, che portava me e mio fratello a vedere al cinema i film che allora si chiamavano “avventurosi”, western o quelli ambientati nell’antichità come Maciste e Ercole. 
Il vero scarto ci fu a quattordici anni, durante il primo anno del Liceo Classico al Giulio Cesare, partecipando al corso di teatro tenuto dal prof. Dini, ma di fatto diretto da Claretta Carotenuto (figlia dell’attore Mario Carotenuto), con cui poi strinsi una durevole amicizia.
 
 
Ritiene che il cinema e la filosofia abbiano punti in comune? 
In genere, qualunque arte ha a che fare con la filosofia, perché ogni atto creativo implica sia il rapporto con l’esperienza, l’intuizione e i sensi, sia un processo di astrazione atto ad individuare i concetti di fondo che costituiscono la struttura di quel che si vuole esprimere e poi, si deve restituire tutto questo nella forma sensibile della composizione estetica perché entri in relazione con i sensi, l’intuizione e l’intelletto di coloro che vengono in contatto con l’opera.
Il cinema, in particolare, non può essere agito senza porsi il problema dell’esistenza in senso lato, e delle specifiche condizioni dell’umano negli eventi concreti in cui lo sceneggiatore e il regista hanno posto i personaggi della storia che vogliono narrare. Una frase di Jean Luc Godard può essere assai esplicativa del nesso di cui parliamo, la ricordo più o meno così: “La scelta di una inquadratura, decidere come posizionare la macchina da presa, è sempre un fatto morale”. Si pensi al paradosso, non di poco conto, che la finzione nell’interpretazione attoriale e quella della narrazione drammaturgica hanno come fine il vero, l’autentico: come direbbe qualcuno già questo è un problema fortemente filosofico.
 
 
Oltre ad aver recitato in moltissime pellicole, nel 2019 ha scritto e diretto “Jeanne”. Cosa può raccontarci di questo suo lavoro e dell’esperienza che ha vissuto realizzandolo?
Il mio lavoro si è ispirato ad un’opera di Bertolt Brecht che si chiama Santa Giovanna dei Macelli, che l’autore scrisse nel 1930 a ridosso della crisi economica del ’29. Era mia intenzione fare qualcosa, con gli strumenti a mia disposizione, che fosse un atto critico e creativo sulla crisi economica che stavamo vivendo dal 2008. Pur senza un supporto economico, ma con l’aiuto di coloro che sposarono l’idea, con la benevolenza degli aventi diritto della famiglia Brecht, ci ho messo sei anni dal 2013 al 2019 a fare questo film. È stata certamente un’esperienza intensa, discontinua, non semplice, ma di grande soddisfazione. Da un punto di vista drammaturgico ho pensato di narrare il fallimento di una messa in scena in teatro dell’opera di Brecht a causa dell'eccessivo costo dell’allestimento: per cui c’è un piano della realtà, in cui mi si vede alle prese con gli attori che cerco di convincere a partecipare senza essere remunerati, poi questo piano reale si trasfonde in quello brechtiano attraverso le prove, le letture del testo da parte degli attori, e infine in immagini propriamente di finzione cinematografica. La cosa che più mi commuove del cinema e del teatro è vedere tante persone che lavorano per molte ore, molti giorni e a volte qualche anno per uno stesso scopo: in filosofia si direbbe un molteplice che tende all’unità. Questo scopo, senza retorica, non sempre si raggiunge a pieno, forse la sua realizzazione è intrisa di errori, ma ha sempre a che fare con la bellezza.

Cosa pensa della produzione cinematografica degli ultimi anni?
Per carità, ci sono molti film interessanti e a volte molto belli, però il problema è la produzione. Negli ultimi tre decenni sono diminuiti i produttori singoli per lasciare spazio a grandi aziende della comunicazione, questo ha prodotto una minore varietà e individualità nel prodotto artistico a favore di progetti standardizzati, anche di ottima fattura e professionalità, ma aventi come obiettivo il profitto e non l’originalità artistica; oggi, soprattutto in Italia, un film come la Dolce vita di Fellini non verrebbe mai prodotto.
 
Che messaggio vorrebbe dare a dei ragazzi che iniziano a cimentarsi con questa arte?
Di amare quello che fanno, di essere sinceri e di non scoraggiarsi di fronte a niente. Di possedere la tecnica, mettendosi in discussione per migliorarla. Di provare e riprovare con gli attori, garantendo livelli interpretativi alti, non avendo fretta. Di non credere di avere la verità in mano, ma al contempo di seguire la propria ispirazione con coraggio, imparando a cadere e poi a rialzarsi, come diceva Mohamed Alì.
 
Grazie infinite, Professore, per averci dedicato il suo tempo e averci lasciato numerosi insegnamenti e spunti di riflessione, e non solo in ambito cinematografico.

aprea