Chi parla male pensa male
L’importanza del linguaggio nella determinazione del pensiero
“Chi parla male, pensa male … e vive male!” è una nota battuta pronunciata dal regista e attore Nanni Moretti nel suo film del 1989 “Palombella Rossa”.
Tralasciando quanto possibile il messaggio complessivo del film, l’intento di questo articolo è soffermarsi sul valore che ha la lingua (intesa come lessico, idioma, dialetto, grammatica, cultura …) nella rappresentazione e nell’interazione che l’uomo ha con il reale.
Se la percezione sensibile è il mezzo attraverso il quale l’uomo si pone in contatto con il reale, il linguaggio è lo strumento di cui egli dispone per elaborare la sua propria esperienza e per materializzare quest’ultima su un piano sociale, quello della comunicazione.
Le discordanze tra percezione e linguaggio sono alla base del problema della comunicazione tra individui, ma, allo stesso modo, sono anche problematiche in primo luogo per la comprensione che l’uomo ha del suo reale.
Questo fenomeno è riscontrabile da chiunque, ad esempio, quando si affronta una disciplina nuova: uno studente che si approccia alla filosofia ha probabilmente già sedimentata in sé la nozione di “idea”, tuttavia questa quasi sicuramente si avvicina alla concezione astratta e generica di “intuizione” e non contempla, ad esempio, l’accezione platonica. In questo esempio è menzionata una discordanza specifica, cioè data semplicemente dal fatto che la filosofia, come ogni disciplina, presenta i suoi propri tecnicismi e non può essere compresa con il linguaggio che si utilizza convenzionalmente. In questo genere di problemi si incorre quotidianamente nello studio, ma essi sono facilmente risolvibili grazie alla pratica e all’abitudine. Le discordanze più problematiche, tuttavia , sono quelle presenti radicalmente nella corrispondenza tra oggetto e significato, quelle che minano non l’apprendimento di un concetto didattico, ma l’elaborazione di un pensiero individuale.
Conoscere il significato delle parole significa possederle, cioè intessere relazioni intime con gli oggetti della realtà. Più il lessico si amplia, più si fa specifico e variegato, più si possiede il controllo sul proprio pensiero e più si è capaci sia nell’organizzazione che nell’atto creativo.
È interessante, a proposito di questo, riportare una riflessione legata agli idiomi.
Nella lingua russa esiste la parola “Byt”, difficilmente traducibile, che potrebbe bene o male corrispondere al concetto di “vita quotidiana”. Tuttavia questo termine, largamente impiegato nell’ambito letterario, implica una serie di connotazioni pesantissime a livello strettamente culturale se lo pensiamo inserito nel contesto storico della Russia stalinista. La dicitura “vita quotidiana” va infatti corredata di un significato oppressivo, assimilabile con “la staticità, l’immobilità” come forza naturale che appiattisce la propulsione della personalità umana su uno sfondo di irrimediabile monotonia.
Nelle lingue europee non esiste una parola egualmente pregna di questo significato, proprio perché le differenze di tipo culturale hanno lasciato prevalere certe tendenze semantiche in un luogo piuttosto che in un altro.
Ecco perché il contatto con una lingua sconosciuta è un arricchimento inimmaginabile, esso ci svelati concetti che sono talvolta sconosciuti o traslati nella lingua madre.
Il discorso è simile per quanto riguarda i dialetti, che sono un patrimonio insuperabile della cultura dei popoli, con il quale noi Italiani abbiamo per lungo tempo dovuto fare i conti prima di pattuire una lingua più o meno unitaria.
Il processo di approssimazione e contrazione che sta subendo la lingua italiana, specialmente sotto gli influssi e le fascinazioni provenienti da oltre oceano, rischia di culminare in un appiattimento totale del lessico o in una scissione progressiva tra oggetto e significato che potrà perdurare fino all’approssimazione di un linguaggio globalizzato di matrice anglofona (come sta già avvenendo per le nuove professioni legate al mondo della tecnologia) e questo processo è pericoloso non solo perché mina la diversificazione e l’autonomia culturale dei popoli, ma perché rischia di intaccare la radice stessa dell’esercizio al pensiero.