La concessione della luce elettrica (parafrasando un titolo di Andrea Camilleri, scrittore dell’altra isola...)

   di Salvatore Satta & Paolo De Sanctis 

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Il mondo si potrebbe dividere fra Sardi e Non Sardi. I secondi sono decisamente maggiori dei primi. I primi però impreziosiscono la loro già preziosa isola ed arricchiscono anche la popolazione della Capitale. 

Quando qualcuno dei (uno di Noi) Non Sardi si appresta a fare un viaggio in quella splendida isola, per entrare meglio in armonia con questo luogo meraviglioso, può, deve acquistare un libro, che lo aiuti ad entrare nel mistero di questo entroterra circondato dall’acqua e della sua gente.  

(Questa operazione andrebbe fatta prima di qualsiasi partenza per qualsiasi luogo, in verità.) 

Nel caso della terra dei Sardi, si ha solo l’imbarazzo di una scelta, che non andrò qui ad elencare, dato che queste mie parole devono fungere solo da sintetica introduzione ad una voce autorevole di questa terra, un figlio di Nuoro, l’Atene della Sardegna, secondo una di quelle definizioni che ci potrebbero far sorridere. 

Sto parlando di Salvatore Satta, il quale fu un notissimo giurista (dicono) in vita ed un narratore scoperto postumo. La sua più nota fatica letteraria si chiama Il giorno del giudizio, pubblicato per la prima volta nel 1977, che, se fuori dalla Sardegna non è certo un classico noto a tutti, sull’isola lo si può trovare sbandierato praticamente ovunque. 

Il tema di Agorà di questo mese è, come è noto, “Luci ed ombre”. 

Da quando ho letto il libro di Satta, proprio fra Roma e la provincia di Nuoro ed anche quella di Oristano, non potevo non ricordarmi di un passaggio di questo romanzo, dopo aver sentito il tema del giornale. 

Desidero così, senza altre chiacchiere, condividere con chi lo desiderasse, parte del settimo capitolo di questo romanzo, in cui l’enigmatico narratore della storia descrive con un tono fra il meraviglioso e il favolistico il passaggio cruciale fra due mondi (uno dei quali non tornerà più), cioè l’arrivo della luce elettrica a Nuoro e i suoi sprazzi di luce nell’ombra:  openspace42

 VII  

[...] 

La luce elettrica era venuta a Nuoro incredibilmente presto. Qualcuno che era tornato dal continente parlava di queste città che si illuminavano improvvisamente, di queste lampade che si accendevano da sole, e non una qui e una là, ma tutte insieme, come dire da San Pietro a Sèuna, in una volta. Ma in fondo non erano che parole. Maestro Ferdinando, che era maestro perché era muratore, ma si era assunto il compito di accendere ogni sera i fanali a petrolio, continuava il suo lavoro. Era un uomo lungo e magro, e vestiva il costume, per quanto fosse, a causa del suo mestiere, un poco inurbato. I fanali erano come urne di ferro, con un lungo braccio piantato negli spigoli delle case, e avevano una loro massiccia eleganza. Maestro Ferdinando, quando spuntava la prima stella, afferrava l'altissima scala che di giorno restava appoggiata per il lungo al muro rosso della sua casetta, e portandola spall-arm iniziava il suo giro. I ragazzi gli correvano appresso, compresi di quella pubblica e solenne cerimonia, e non solo i figli scalzi dei poveri, ma i figli dei ricchi, con le loro scarpe ferrate di chiodi, per salvare la suola. Maestro Ferdinando, senza guardarsi intorno, issava la scala poggiandola sul braccio del fanale, apriva lo sportellino di vetro, e strofinava il fiammifero di legno sul ferro, lasciandolo poi cadere per terra. Era quello che i ragazzi attendevano, perché si gettavano vociando sulla inutile preda, di cui ciascuno faceva raccolta. Chi ne raccoglieva più di tutti, perché era il più svelto, era l'ultimo figlio di Don Salvatore, che li portava a Donna Vincenza, perché glieli custodisse.  

Ma il fatto è che i lampioni a petrolio, e maestro Ferdinando e i fiammiferi e i sogni avevano le ore contate. Don Priamo e Donna Franceschina illuminavano ancora la loro cena con la fiamma inquieta della stearica, e ancora le lucerne di rame riempivano d'ombra e di luce le stanze dei servi: ma Don Pasqualino Piga sapeva quel che si faceva quando tramava col continente per spegnere con un potente soffio tutte quelle fiammelle preistoriche. Ricco di un'immensa ricchezza (possedeva salti interi, in tutti i paesi del circondario), nobile, bello, Don Pasqualino Piga aveva la vocazione dell'industria, unico fra i nuoresi, che l'industria non sapevano neppure che cosa fosse. Al limite di Sèuna aveva impiantato un mulino a vapore, con annesso un pastificio, che riempiva di battiti, come di un grande cuore, tutta la contrada. I palmenti lavoravano giorno e notte, e tra il velo finissimo di farina brancolavano le ombre dei figli di Don Pasqualino Piga , che lavoravano come gli operai, più degli operai, con la dedizione tumultuosa che sempre hanno i signori, quando scoprono il lavoro. A mantenere la tradizione restavano in casa le donne (la vecchia Donna Rina, la madre di Don Pasqualino, che era come un vessillo - basti dire che un pastore di Nuoro che era stato trasportato a Roma, e aveva fatto nuove esperienze, ne era tornato dicendo: altro che Donna Rina, quelle bagascie del continente! - la moglie Donna Angelica; e le sue tre splendide figlie, una più bella dell'altra), aureolate dell'antica e nuova ricchezza. I sacchi di grano si allineavano nell'immensa sala, ed era cosa buona e giusta. Solo che fino a ieri il grano si era macinato a Nuoro nelle mole, come quella di zia Isporzedda, una tributaria di Donna Vincenza, con l'asinello che girava in perpetuo in un piccolo antro senza finestre. Le donne portavano, reggendoli sul capo, i quarti di grano nelle còrbule ricolme orlate di rosso, e questa non era soltanto una faccenda come un'altra, era anche un atto di carità. Il mulino di Don Pasqualino aveva d'un colpo fermato tutti gli asinelli e spenta la carità. E così ora egli si accingeva a spegnere con un soffio tutte le fiammelle di Nuoro, a distruggere il rito della accensione del lume nella casa del povero e del ricco, a cambiare le facce delle persone illuminandole di una luce diversa. Era il suo destino, era il destino. Le vie del borgo, ancora tutte acciottolate fuori del lungo Corso, si riempirono di fili, che parevano un ornamento. Don Pasqualino era arrivato a portare a Nuoro, chissà di dove, una strana scala, fatta di tante scale che si infilavano l'una nell'altra, e la issava ad altezze inverosimili. Maestro Ferdinando continuava a uscire incredulo, col suo povero arnese, ma i ragazzi non lo seguivano più.  

La luce arrivò in una sera gelida di ottobre. Nuoro era coperta come da una ragnatela, i fili correvano da un capo all'altro delle vie e dei vicoli, e i proprietari delle case che non avevano un braccio di ferro con le tazzine di porcellana infisso nel muro si sentivano come diminuiti, perché il senso del nuovo e dell'ignoto era più forte di quello della proprietà. Ma nel Corso, nella antica via Majore, i figli di Don Pasqualino avevano steso i fili di traverso, e ogni trenta metri nel mezzo della strada pendevano le lampadine dai piatti di ferro smaltato. Tutto il paese era uscito di buon'ora per assistere pieno di diffidenza e anche di malaugurio all'avvento. Le donne di buona famiglia occhieggiavano dalle finestre, e ciascuno si teneva per sé i suoi pensieri. Solo il sig. Gallus, che era il maestro di ginnastica, ed era venuto di fuori, disse a voce alta in un crocchio quel che pensava: ― Voglio vederle io queste candele accendersi a testa in giù. E d'improvviso, come in un'aurora boreale, queste candele si accesero, e fu fatta la luce per tutte le strade, proprio da San Pietro a Séuna, un fiume di luce, tra le case che restavano immerse nel buio. Un urlo immenso si levò per tutto il paese, che sentiva misteriosamente di essere entrato nella storia. Poi, gli occhi stanchi di guardare, la gente infreddolita rientrò piano piano nelle proprie case o nei propri tuguri. La luce rimase accesa inutilmente. Si era levata la tramontana, e le lampade sospese nel Corso coi loro piatti si misero a oscillare tristemente, luce e ombra, ombra e luce, rendendo angosciosa la notte. Questo coi fanali a petrolio non avveniva.  

I quali restavano attaccati e morti nei muri, e ponevano un grosso problema, cui nessuno aveva pensato. Che farne? Erano costati circa venti lire l'uno, Don Priamo se lo ricordava ancora. L'illuminazione elettrica era un evento, come oggi si usa dire, irreversibile, cioè ai lampioni non si sarebbe tornati mai più. Allora avvenne un fatto che nessuna cronaca del mondo io credo abbia mai registrato. Nuoro, con la sua aureola di luce, era come una nave nelle tenebre dell'oceano. I paesi vicini continuavano nella loro notte. Il più vicino di tutti era, proprio di là dalla valle, Oliena, come dicono le carte, ma il suo vero e più poetico nome è Ulìana, con l'accento sull'i. È un meraviglioso paese, ai piedi del monte più bello che Dio abbia creato, e produce un vino nel quale si sono infiltrate tutte le essenze della nostra terra, il mirto, il corbezzolo, il cisto, il lentischio. Il monte è calcareo, e perciò è costellato di punti bianchi che sono i forni della calce. Ogni olienese possiede, come dicono, “parte di vigna e parte di forno”, e così tutti sono poveri e ricchi, e sono allegri, i soli sardi allegri, nei loro rutilanti costumi, e ogni domenica fanno il ballo tondo nella piazza sconnessa della chiesa. Del resto danzano anche quando camminano, e specie le donne quando tornano da Nuoro, coi piedi nudi e con le scarpe al collo, quasi librate sulla strada bianca, solcata dall'acqua. I nuoresi li tengono un po' in dispregio, o li considerano come grandi bambini. Ora, dalla piazza di Oliena, Nuoro appare come una immensa fortezza, con l'abside della chiesa a picco sulla valle, il molino rosso, le case alte di San Pietro: solo un angolo, perché Nuoro, come mi pare di aver detto, si riversa tutta dall'altra parte. Ma quella sera di ottobre tutti gli olienesi si erano raccolti, uomini, donne, bambini, con gli occhi volti in su, perché la fama si era sparsa: e a un tratto apparve quella magia luminosa nell'immenso vuoto, e fu anche a Oliena un urlo di gioia. Cosa c'entravano, se non forse per via del miracolo, che è miracolo per tutti, non si sa bene. E invece c'entrarono, e come. Perché non si può stabilire con precisione da chi sia partita l'idea, ma il fatto è che i morti fanali di Nuoro presero la via di Oliena, furono venduti con la scala del lampionaio ai vicini poveri, e vennero da Oliena il sindaco col costume nuovo e il segretario a stipulare l'atto. I nuoresi si fregarono le mani di nascosto, e alla sera andavano a Sant'Onofrio a vedere Oliena che si illuminava, un fanale dietro l'altro, che si potevano contare, e chissà se anche là i ragazzini non correvano appresso al lampionaio, a raccogliere i fiammiferi spenti. 

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